Occhi nel vento, vento negli occhi.
La vela come sport per i disabili visivi
E’ necessaria però molta circospezione quando si entra in un simile argomento: troppo marginale - esistono problematiche ben più importanti da affrontare – troppo eccentrico – l’ambiente acqueo è pericoloso anche per chi ci vede benissimo – troppo costoso – la vela è uno sport d’elite – sono solo alcune delle obiezioni più comuni e banali che vengono mosse quando si tenta di affrontarlo.
Avete notato che gli occhi sono una delle principali fonti di pregiudizio? Con gli occhi vediamo il colore diverso della pelle, determiniamo se uno è ricco o è povero, ci rendiamo conto se è seduto su una carrozzella o se cammina con le proprie gambe. Bene, se riuscissimo a chiudere gli occhi per un momento sui nostri pregiudizi, forse riusciremmo a concentrarci solo sul perché e sul come.
Come per tutti gli sport o per tutte le attività non prettamente lavorative, la vela deve piacere. Se piace, una parte del perché ha già la sua risposta. Poi si può affrontare il come.
E’ ovvio che per fare le stesse cose di un “normodotato (brutto ma efficace termine) un diversamente abile deve farle in modo più o meno diverso. Meno “diverso” è il modo di vivere le situazioni per un diversamente abile è maggiori sono le possibilità di integrazione fra chi ha normali abilità.
E chi ha diverse abilità.
La vela dà grandi possibilità in tal senso, perché permette un apprendimento ed una messa in pratica delle cognizioni necessarie al suo esercizio in modo molto “normale”, ancorché nell’indispensabile peculiaritàà dell’approccio .
Esistono corsi di vela specifici per non vedenti, organizzati dall’Associazione Homerus, associata F.I,.V., che ha la sua base nautica sul Lago di Garda e sui qualiè possibile informarsi visitando il sito www.homerus.it.
I corsi proposti sono di due livelli: uno di base ed uno di match race.
Durante il primo corso, che si svolge a bordo di imbarcazioni di 21 piedi fuori classe, tipo “Meteor”, gli allievi imparano a “leggere la barca”, cioè a conoscere ogni parte dell’imbarcazione mediante l’esperienza tattile, imparano come muoversi a bordo in sicurezza, come armare la barca e come effettuare le principali manovre.
Da subito, gli allievi vengono impegnati nei vari ruoli di bordo, timoniere o prodiere, acuiscono la loro percezione del vento e, “facendo equipaggio”assumono la padronanza dell’imbarcazione e della tecnica di navigazione a vela, almeno per quello che riguarda i primi rudimenti.
Gli istruttori sono gli occhi degli allievi, ma il corso è del tutto assimilabile ad un normale corso di vela.
Nel secondo corso, oltre ad affinare le capacità acquisite, viene insegnata la tecnica di regata “uno contro uno” o “match race” utilizzando boe sonore per delimitare il percorso e segnalazioni acustiche differenti per determinare la posizione dei regatanti e se le barche stanno andando mure a dritta o a sinistra.
L’esperienza e la passione fanno il resto.
Scritto così, potrebbe sembrare tutto facile e lineare. In realtà ogni situazione va ovviamente affrontata con il doveroso buon senso: come un normalissimo obeso di 120 chili non può partecipare alle Olimpiadi come centometrista o una normalissima ragazza di un metro e cinquanta non può fare la centrale in una squadra di pallavolo, così non bisogna immaginare un prodiere nonvedente appena uscito dal corso di primo livello alle prese con spi grandi come campi da tennis o un equipaggio di non vedenti a trapezio su un catamarano.
Però è possibilissimo immaginarlo – e, soprattutto, vederlo – timonare un 21 piedi o preparare la scotta del fiocco su un winch, come un normalissimo velista.
Nell’approccio all’attività velica con i non vedenti o con i diversamente abili in genere, Tre sono gli errori prospettici più frequenti da evitare:
1) Sindrome del passeggero. Essere ben chiari nella proposta: specificare sempre se l’attività proposta è una scampagnata in mare da passeggero, o se si tratta di un’uscita dove è necessario un membro dell’equipaggio o un aspirante tale a cui si è disposti ad insegnare e a far provare. Il disabile potrà scegliere, evitando di tornare a terra con l’animo di una “zavorra intelligente”
2) Sindrome da circo. L’equipaggio di una barca non dovrebbe trasformarsi in una “Corte dei Miracoli” o in un caravanserraglio, dove bizzarri acrobati si esibiscono in grottesche e pericolose evoluzioni, cercando di imitare situazioni “normali”, seguiti dallo sguardo indulgente e a volte preoccupato dei capo ciurma “normali”.
3) Sindrome del “faccio io”. Se il disabile è stato accettato come membro dell’equipaggio, sarebbe bene assegnargli compiti precisi, lasciandogli la possibilità di assolverli nel modo a lui più consono e con la possibilità di sbagliare, solitamente concessa ad ogni essere umano, purchè non porti se stesso, i compagni o la barca in situazione di pericolo. Se viene stigmatizzato ogni minimo errore col “lascia, faccio io”, o se l’incarico dato al membro dell’equipaggio x viene dato, senza ragione, al membro y,la comprensibile mortificazione che ne seguirebbe, porterebbe in breve alla rinuncia all’attività e alla autoretrocessione al ruolo di “zavorra intelligente” (e forse nemmeno troppo…).
E’ dunque così difficile navigare a vela con un diversamente abile a bordo? No, se ci si ricorda di lasciare a lui le stesse chances che di solito vengono lasciate ad un amico “normale”, ma questo dovrebbe essere un modus pensandi umano, non solo marinaresco.
Ma a che pro tutto ciò? Avete presente la sensazione che si prova uscendo di casa, finalmente guariti, dopo una lunghissima patologia? Allora, focalizzate quella sensazione, moltiplicatela per cento, per mille nel momento in cui, con gli occhi nel vento, di là dalla randa, verso un fiocco che non vedete ma sapete che c’è, voi, proprio voi e nessun altro, spingete la barra per poggiare un poco, immaginando il cenno d’assenso dei vostri compagni, che non vedete, ma sapete che ci sono, risalendo di bolina, una brezza leggera di pura gioia e consapevolezza dell’esistere…
Tiziano Storai